EPIFANIA – Zoltan
La piacevole lettura della relazione “Miti e Misteri delle Feste Natalizie” di Roberto Volterri mi ha stimolato a indagare e a comporre uno studio sull’etimologia del nome Epifania, nel linguaggio popolare conosciuto come Befana. Eccolo qui.
Solstizio d’inverno a Poggio dell’Uovo / Sorano (Z. L. K.)
La sera del solstizio d’inverno del 2020 abbiamo avuto la rara occassione di poter ammirare sulla volta celeste il fenomeno splendente di congiunzione ☌ dei due pianeti giganti del sistema solare: Giove ♃ e Saturno ♄. Due mila anni fa fu lo stesso splendente fenomeno celeste a condurre i tre Maghi venuti dall’orientale Parthia a Betlehem con doni di adorazione per il neonato Gesù Christo, figlio di Dio e luce del mondo.
L’Adorazione del Divin Fanciullo di luce / Foto: Magyar Kurír
Grande Congiunzione ♃♄
Scrive Roberto Volterri:
«Epifania abbiamo detto? Epifania da cui deriva il non bellissimo nome dato alla nostra cara vecchietta che vola a cavallo di una scopa. Epifania che deriva dall’aferesi del latino Epiphania, ovvero ‘apparizione’, termine mutuato dal greco antico, con lo stesso significato. Poi, verso il III secolo le comunità cristiane designano con il termine ‘epifania’ ogni manifestazione divina del Salvatore e, in particolare, l’adorazione del Divin Fanciullo da parte dei Re Magi.»
Nel Dizionario Etimologico Rusconi sotto la voce Befana si legge: «dal greco epipháneia hierá (feste dell’apparizione) attraverso il latino epiphania. Significato: nel linguaggio popolare, giorno dell’Epifania; nel folklore popolare, la vecchia che porta doni e dolciumi la notte dell’Epifania (6 gennaio) ai bambini; in senso esteso, donna brutta e vecchia.»
Per giunta sotto épi- si legge: «prefisso dal greco epi (= su, di nuovo). Cfr. sanscrito api, latino apud. Significato: usato in molte parole composte che significa in, su, sopra, di nuovo, per esempio epidemia (da epi- e dêmos): diffusione di una malattia contagiosa che colpisce contemporaneamente un gran numero di persone .»
Per essere precisi, l’epidemia colpisce la “salute”, quindi la “salvezza della popolazione”.
In origine il termine composto Epi-fania vuol dire “salva/completa luce”, in ted. “heiles Licht”, in ingl. “safe light”, significato che in magyar/(h)ungherese risuona tuttora come: ép fény [ep feɲ]. Incredibile ma vero che da questo senso originario si è arrivati a “donna brutta e vecchia”. I due componenti di Epifania sono due perle lessicali, due parole-seme che da più di cinque milleni vengono utilizzate nella maggior parte delle lingue euroasiatiche e oltre. Sono: IB e BAN e fanno parte del tesoro di parole della arcaica lingua kingir/šumera, di tipologia agglutinante come il hatti, l’etrusco, il turco, il casaco, il tataro, l’uiguro, il mongolo, il coreano, il tibetano, il giapponese, il tamil, il basco, l’ungherese, il finnico, l’estone, il quechua, il maya e molte altre ancora.
IB
In dettaglio si tratta di: IB, val. fon. ib, ip, eb, ep (Labat s. no. 535) “interno”, “una cintura / cinghia”; ÍB (Labat s. no. 207) , val. fon. íb, éb, íp, ép “vita, cintola”, fr. “taille, milieu”, ÍB-LÁ “cintura, cinghia”; UB, val. fon. ub, up (Labat s. no. 306) “interno”, fr. “intérieur”. La stessa parola-seme IB, ib in aeg. ha il significato affine di “cuore”. In magyar/(h)ungherese la parola-seme šum. IB si è mantenuta nel suo valore fonetico ép col significato “salvo/integro/pieno/completo/ illeso”, essendo parte integrante del sistema di parole-seme: ép – év – ív – öv – óv – eb. Esse esprimono i vari aspetti del concetto generico di “salvezza” / “essere salvo/integro/pieno/completo”, risalendo all’idea originaria di “cintura / cinghia / cintola” ◯ . La affinità semantica tra šum. IB “cintura/ cintola, interno” e aeg. ib “cuore” viene completata dalla voce corrispondente in magyar che è szív “cuore; aspira(re), succhia(re)” la cui forma speculare visz (szív | visz) significa per coerenza “porta(re), trasporta(re)”. Ecco un piccolo esempio di applicazione per facilitarne la comprensione:
Az ép-ívű szív szív és visz «Il cuore di salva arcuatura succhia e trasporta».
In questo contesto è interessante sapere che in antichità vigeva l’usanza di cingere le donne partorienti intorno alla “vita” con la cintura del parto di buon auspicio. A riguardo l’autrice Luisella Veroli nel suo prezioso libro prima di eva, nel capitolo La cintura di Venere, scrive quanto segue:
«Ancora oggi di una donna in gravidanza diciamo incinta (dal latino incingere = cingere intorno). Le donne greche consacravano, dopo ogni parto, la cintura alle antiche Dee protettrici delle nascite: Ilitia, Demetra e Artemide. Quest’ultima, nonostante avesse anche assunto l’aspetto di cacciatrice, aveva mantenuto le prerogative di Dea protettrice del parto. […] Vari Concilii condannarono l’uso delle cinture magiche, che le donne ritenevano facilitassero il parto e protegessero i bambini, come pratica pagana (da pagus = villaggio). Ma in zone periferiche, rurali, le madri, incuranti delle imposizioni del cristianesimo ufficiale, continuarono a tramandare alle figlie riti e simboli che affondano le radici nella preistoria. Leggo la sottile cintura incisa sulle Dee dell’età della Roccia-Madre nel suo immuttabile significato archetipico come totalità degli aspetti erotici, materni, magici e spirituali del femminile.»
Eppure una traccia dell’arcaica cintura magica delle donne partorienti esiste ancora nella cristianità. Si tratta della «“Sacra Cintola devozionale” che è un nastro di seta o di carta, decorato con fiori e con l’immagine della Madonna, da portare come protezione contro le malattie e come speranza di maternità. L’usanza si collega con la leggenda antica del dono della cintura della Madonna.» (Wikipedia)
Benozzo Gozzoli, Madonna della cintola, Musei Vaticani
Possiamo constatare che la parola-seme ép, con cui due millenni prima della formazione della lingua greca antica in kingir/šumero veniva espressa l’idea di “salvezza/integrità/completezza” riferita, appunto, alla “cintura” ◯ , nel quadro del lessico greco ha perso il suo significato originario ed è degradata alla funzione di prefisso epi- significante “in, su, sopra, di nuovo”; ma riflettendoci bene si comprende che pure questo senso di “aggiungere, completare” ha ancora un chiaro riferimento alla “salvezza”, e cioè “portare qc. all’integrità” completando.
Al sistema di parole-seme: ép – év – ív – öv – óv – eb corrispondono in italiano i significati “salvo/completo/integro” e sinonimi – “anno” – “arco/arcata” – “cintura/cinghia” – “protegge” – “cane”. Connessa a ép è la parola-seme ap che in questa sua forma breve attualmente è inutilizzata; viene invece impiegata leggermente allargata come: ap-a / aty-a “padre” (identici a šum. AB, akk. abu, L. s. no. 128 e AD, L. s. no. 145, etr. apa), áp-ol “cura(re)”, áp-ol-ó “infermiere/a”, áp-ol-t “curato”, áp-ol-ás “cura, custodia” ecc. Ovvio che ogni elemento di questo sistema di parole-seme a sua volta è ricca fonte di derivati. In questo quadro mi limiterò a nominare un solo esempio, tanto per dare un idea. Da ép derivano tra l’altro: ép-ít “costruisce, edifica(re), erige(re), completa(re)”, ép-ül “edificarsi, elevarsi, completarsi”, ép-ít-ő “costruttivo, edificante, costruttore”, ép-ít-ett “costruito, edificato”, ép-ít-és “costruzione, edificazione, fabbricazione”, ép-ít-ész “architetto”, ép-it-ész-et “architettura”, ép-ül-et “costruzione, fabbricato, caseggiato”, ép-ít-mény “edificio”, ép-ség “salvezza, integrità, completezza” ecc. ecc..
Un esempio di valore rivelatore è il vocabolo epiteto: «da gr.-lat. epítheton, aggettivo / sopranome, aggiunto al nome»; quindi epiteto vale “aggiungimento, completamento”, epitheton ornans “aggiungimento ornante / addobbante”. Come vediamo i dizionari etimologici tradizionali indicano la voce epitheton di origine greco-latina. Ma questa è una affermazione che non regge, poiché la voce nel quadro del vocabolario greco non dispone di un seme d’origine; di fatti epitheton in greco risulta un prodotto verbale finito/pronto. Il processo di graduale crescita agglutinativa della voce epitheton si rivela invece con evidenza in magyar/(h)ungherese:
ép “salvo/integro/completo/illeso”
ép-ít “costruisce, edifica(re), erige(re), completa(re)”
ép-ít-ett “costruito, edificato, eretto, completato” e
ép-ít-ett-en “in modo costruito, edificato, completato”.
Tanti vocaboli greco-latini derivano dalla fonte d’origine IB ép; tra queste: epitelio, epibolia, epiderma, epifisi (ghiandola pineale), epigramma, epigrafia, epigenesi, epilogo, epistola, epistemologia ecc. ecc..; ne fa parte anche la voce etrusca avil “anno” che il filologo G. Semerano valuta così:
«Avil significò “questo, quel ciclo di tempo”, come ένι-αυτός (ένι-: semitico ‘nu, accadico enû, “fare un ciclo, “mutare”, e il pronome -αυτός). Avil è semitico jaum, accadico ūwu, ūmu (tempo, “Zeit”) e il pronome il di acil (codesto): vedi latino ille, ebraico ēlle, accadico allû. Storicamente avil corrisponde, alle origini, all’arconte eponimo ateniese che dava nome all’anno: come è noto dal 684 a.C. l’arcontato fu limitato a un anno. Avil è calcato su base come accadico awīlu (arconte, magistrato, “man as designation of a person in relation to an organization, to a city, to the king”), che diventerà sinonimo di anno.»
(«Il popolo che sconfisse la morte – Gli etruschi e la loro lingua», ed. Mondadori, pag. 46)
A questa interpretazione di G. Semerano io giustappongo e metto semplicemente in luce ciò che per autoevidenza si rivela chiara fonte di origine:
év “anno”, év-el “dura(re) un anno”, év-el-ő “annuale”; essenziale sostegno fono-semantico offrono le combinazioni ép év “integro anno”, ép ív “completo arco”, ép öv “salva cintura ◯ ” zodiacale, per nome Ariete ♈ – Toro ♉ – Gemelli ♊ – Cancro ♋ – Leone ♌ – Vergine ♍ – Bilancia ♎ – Scorpione ♏ – Sagittario ♐ – Capricorno ♑ – Acquario ♒ – Pesci ♓.
Tale sonoro reperto archeologico che parla da sé, cioè etr. avil = mag. ével, l’interpretazione erudita di G. Semerano non è in grado di confutare.
I dodici segni zodiacali sull’orologio astronomico di Venezia
BAN | NAB
La seconda parola-seme costituente di Epi-fania è fan; essa risale alle parole-seme kingir/šumere BAN e NAB. Come si evince, esse sono in relazione di riflessione speculare: NAB | BAN.
In dettaglio si tratta di: ᵐᵘˡ BAN (Labat, Deimel, s. no. 439) “costellazione Canis majoris; Venere / Vénus”; BÁN (L., D., s. no. 74) “misura di capacità volumetrica” (cfr. mag. benn “dentro”, pina “vulva”; sanscr. pina “gonfiarsi, gonfia/o, piena/o, rotonda/o, grossa/o, larga/o, grassa/o, carnosa/o”; ingl., ol. pan, ted. Pfanne, sve. panna “padella”, fr. ingl. Pint “misura volumetrica”, it. pentola), formulazione funzionale, questa, che cela la qualità femminile/materna per eccellenza: “accogliere – contenere – dispensare”; rispettivamente NÁB/NÁP – forma speculare di BAN – akk. nabāṭu (L., D. s. no. 129) “stella, brillare”, akk. napāḫu (L. D. s. no. 366) “brillare, apparire”, NAP (D. Šum.-Akk. Glossar s. no. 168) “Gott”, “Dio” (Sole).
Com’è noto, la stella di più intensa lucentezza della costellazione Canis majoris è Sirio, che nella mitologia egizia viene associata alla dea Isis/Iside, fedele consorte e accompagnatrice del dio Osiris/Osiride a sua volta associato a Orione, “grande cacciatore” (arciere) sulla volta celeste. Loro bambino di luce solare è Horus/Horo. Alla trinità di “Sole-Sirio-Orione” che splende sulla volta celeste corrisponde quindi la divina trinità di luce Horus-Isis-Osiris. È chiaro che dietro alla celeberrima Madonna col “Divin Fanciullo” c’è Iside col bambino Horus. Mentre Venere nella mitologia kingir/šumera veniva associata alla dea INNANA, nome che significa “Regina del Cielo” ted. “Himmelskönigin”. Sulla base della sua duplice apparizione come “Stella del mattino” ted. Morgenstern (prima del sorgere del Sole) e “Stella della sera” ted. Abendstern (dopo il tramontare del Sole) – nonostante Venere una vera stella che emana luce propria non è ma, come tutti gli altri globi del sistema solare, un pianeta che riflette la luce solare – INNANA valeva “Vergine & Madre di Luce”. Figura centrale delle antiche culture dell’umanità fu la Grande Madre espanditrice di luce solare; ne da conferma il teonimo šum. Zi.ba.an.na “Divina dispensatrice celeste di Luce”.
Inoltre in sanscrito ricorrono le voci affini: bhā “illuminare, essere splendente”, bhāna, bhānu “apparizione, evidenza, splendore, il Sole”, vānī “tessere” (cfr. mag. fon “tesse”), vānī “suono, tono, voce, musica” (cfr. gr. phóni “voce”, lat. fons “fonte”). In greco, a parte il determinativo di combinazioni pan- col significato “tutto, interamente, totale”, ricorrono solamente forme allargate che nominerò più avanti.
In magyar/(h)ungherese risuona, invece, la costellazione di parole-seme affini: fény – fém – szín – csín – fenn – fen – fon – benn – van – vén – von – vonz con i rispettivi significati “luce/splendore” – “metallo (lucido)” – “colore/cromatismo” – “graziosità, finezza” – “in alto” – “strofina(re)” – “fila(re)” – “dentro” – “esiste/c’è” – “stravecchio/a” – “trascina(re)” – “attira(re)”. Interessante la voce lievemente allargata von-ó che significa “trascinante; archetto” e con cui vengono “strofinate” le corde del violino.
Nap – Fény “Sole, giorno” – “Luce” / “Luce solare”
Il centro del sistema planetario è l’astro “Sole” nap, una sfera di plasma quasi perfetta che è un forno cosmico nucleare in cui bruciano idrogeno (H) ed elio (He). La rappresentazione simbolica del sole è un cerchio con un punto al suo centro ⨀. Là “dentro” (mag. benn), nel suo “nucleo” (mag. mag), avvengono le reazioni di fusione nucleare, fonte primaria di energia solare, quindi anche di “luce” (mag. fény), che consiste nella conversione dell’idrogeno in elio. Tale processo di fusione “interna” (mag. benni/benti) genera energia che viene emessa, cioè espansa e dispensa nello spazio sotto forma di radiazioni elettromagnetiche, “flusso/corrente” (mag. ár; fény-ár “flusso di luce”, fény erő “forza di luce” – cfr. Giove Panario, M. Panaro) di particelle ovvero il vento solare e neutrini. Orbene, questa circostanza in magyar/ungherese viene espressa attraverso la semplicissima riflessione e conversione della nuda parola-seme nap “Sole, giorno” che rigirata diventa pan, e, fonicamente lievemente variata, fény “luce, splendore”, quindi: nap | pan > fény.
L’astro “Sole” Nap
Interessante il fatto che anche il nome autoctono del Giappone, che è Nippon, riveli questa stessa riflessione: nip | pin > pon; il rosso “Sole” nascente sulla bandiera giapponese ne reca conferma.
La bandiera nazionale del Giappone: Hinomaru “Disco Solare”
La finissima “alta luce” (mag. fenni fény) del “Sole splendente” (mag. fényes nap) penetra tutte le fenditure di finestra; pure quelle del santuario “Rotonda sul Montesiepi” a San Galgano in cui si leggono le memorabili parole di Gesù Cristo: «Io sono il pane vivente, disceso dal cielo».
La versione completa nel Vangelo secondo Giovanni recita:
«Io sono il pane della vita. I vostri padri hanno mangiato la manna nel deserto e sono morti; questo è il pane che discende dal cielo, perché chi ne mangia non muoia. Io sono il pane vivo, disceso dal cielo. Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno e il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo.» (6, 48 – 51).
Il pane vivente che discende dal cielo altro non è che la “splendente luce solare” fényes nap fény. Quindi sacro pane e vino dell’Eucarestia (da gr. eucharisto “rendo grazia”) sono concreti, sonori portatori di “luce” fény. Il pane in senso traslato è tutto ciò di cui non si può fare a meno; insomma, il pane vivente è un bene, un nutrimento di base. E il vino? Der feine Wein ist Sonnen-Schein im Glass / The fine wine is sun-shine in the glass «Il fino vino è luce-solare nel bicchiere».
Il Sole al tramonto (Z. L. K.)
Epifania – Svastika 卍 e 卐
L’immagine iconografica di ép fény / Epifania “salva luce” è la ruota solare/stellare, ovvero la croce uncinata con bracci angolati o curvati, in sanscrito chiamata svastika (da su “bene”, asti “essere”, ka diminutivo → “benessere”, “fortuna”). Si tratta di uno dei simboli più arcaici dell’umanità utilizzato da molte culture fin dal Neolitico (metà del X millennio a. C.). Il reperto più antico, datato 15.000 a. C., con motivi a svastika conosciuto oggi è un uccello su una zanna di mammut proveniente dal sito tardo paleolitico di Mezine in Ucraina. La composizione di uccello – svastika è di particolare rilievo, essendo l’“uccello” (mag. madár ass. a madjar/magyar) l’essere alato della sfera aerea assocciato al Sole e alle divinità celesti. Succesivamente il simbolo appare tra i segni di scrittura della cultura Vinča in Europa (tra il VI. e il III. millennio a. C.), a Malta, a Creta, in Asia Minore, nell’antica Grecia, in diversi luoghi del vasto territorio euroasiatico, per esempio in Mesopotamia (Samarra), nel Iran (Khuzestan), nella Russia (Sintashta), nel Caucaso settentrionale, in Azerbaijan, in India, in Tibet, in Mongolia, in Cina, in Corea, in Vietnam, in Giappone, nelle Americhe in Arizona, Messico, Panama, Perù ecc..
Monile etrusco con decorazione a svastiche rinvenuto a Bolsena, VII secolo a.C.; Parigi, museo del Louvre
In cinese e vietnamese la croce uncinata viene chiamata wàn/van, mentre in coreano, cantonese e giapponese suo nome ricorre nella variante man/manji (l’approssimante w/v, sorella della fricativa f e variante morbida delle bilabiali plosive sonora b e sorda p, viene alternata con la bilabiale nasale m: w > m). Wàn e man esprimono i significati “10.000”, “miriadi”, “infinito”. Nell’ambito del Buddhismo cinese la svastika wàn indica la manifestazione di “tutte le cose” nella coscienza di un Buddha. In magyar/hungherese con le parole-seme van e mén; menny vengono espressi i significati affini “esiste, persiste, c’è” (coincide con aeg. wen) e “stallone, va; firmamento/cielo”. La croce svastika è un simbolo cosmico dinamico, vivo, lucente, che indica movimento rotatorio attorno a un centro, con ovvio accento sulle quattro direzioni cardinali. Perciò appare verosimile che la forma angolata sia una variante geometrica, stilizzata, della naturale forma curvata del tipo “rosa camuna svastikata” (v. Sellero, loc. Carpene) o la similare croce basca “lauburu”. A mio avviso la svastika è l’immagine corrispondente alla parola-seme arcaica variabile PIR, interconnessa e in certa misura intercambiabile con le parimenti variabili parole-seme arcaiche GIR e TIR come comprovato dalla correlazione dei vocaboli: piroetta, vortice, vorticare, foro, fervere, fermentare – giro, cerchio, cuore, ricorrere, ricorrenza, girare, circolare – turno, tornare, tornado, ritorno, ritornello, turbinare.
Wàn/Van – Benu – Fanu – Phanes
Indagando ancora ho rinvenuto che la denominazione cinese e vietnamese della svastica wàn/van trova riscontro in antico egizio nelle voci wen (wn) “esiste” e Benu (bnw) “brillare, “sorgere”, in etrusco nella voce fanu “tempietto, santuario”, in magyar nelle voci fény “luce”, fenn “in alto”, benn/bent “dentro”. Wen egizio esprime il vasto concetto esistenziale “c’è, esiste, persiste”, rivelando una netta coincidenza con la voce mag. van “esiste, persiste, c’è”, mentre Benu designa l’uccello di fuoco mitologico consacrato al dio sole Ra e simbolo della nascita e della resurrezione dopo la morte, quindi, l’eternità della vita. Benu viveva sulla pietra Benben “dentro” (mag. benn) al suo tempio di Hon/Eliopoli.
Benu egizio
Benu egizio prosegue poi nel teonimo Phanes/Fanes (agr. “luce”), divinità primigenia dell’origine della vita nella cosmogonia orfica, chiamato anche Protogonos “il primo nato” e Erikepaios “donatore di vita”, che è «quella “prima luce” da cui nasce il Cielo e la Terra; sua sorella e sposa è la Notte, l’unica che può vedere tutto il suo splendore lucente» (G. Feo Pittura Segreta Etrusca, pag. 56, 2004, ed. eretica speciale). Anche i Celti veneravano una divinità chiamata Penn, da cui deriva l’oronimo Monte Penna. Pennino, come Panario/Panaro, è uno dei molti sopranomi di Giove “splendente”. Wen – Benu – Phanes – Penn – Penna rieccheggiano poi nei nomi gr. Phoinix, it. Fenice, ted. Phönix, ingl. Phoenix, fr. Phénix, pol. Feniks, cin. Feng/Feng-Huang.
FenicePhoinixPhönix
Fény – Szín “Luce – Colore”
Come dimostra la coppia di voci italiane fino – sino o phono/fono – sono/suono i fonemi f e s talvolta possono essere intercambiabili. In casi simili la variazione fonemica non comporta alcuna variazione semantica. Tuttavia in magyar con la medesima variazione fonemica f > sz [s] in fény > szín [feɲ > si:n] si ottiene una notevole variazione semantica da “luce, splendore” a “colore, faccia/volto, apparenza, riflesso, specchio, superficie, orlo, palco, scena, panna (ted. Sahne), pura”. Notiamo che le due parole-seme fény e szín riflettono due importanti concetti interconnessi, ove la seconda szín risulta causata dalla prima fény, costituendo un suo effetto di rifrazione.
Sin sopra il Monte Labbro (Z. L. K.)
La polisemica voce mag. szín è identica al nome del dio Luna Sin, forma contratta di šum. ᵈ ZU.EN (L. D. s. no. 99) dio “Signore-Sapere”; ted. Sinn, ingl. sense, it. “senno, senso”, ted. Schein, ingl. shine [ʃain] “luce, luccicchio, chiarore, splendore” evocano il disco splendente di Luna piena Sin.
Tocco di Arcobaleno (Z. L. K.)
Non esiste szín “colore, superficie, specchio, riflesso” senza fény “luce, splendore”, senza fenni fény “alta luce” che è emissione di benni fény “interna luce”, di nap-fény “luce solare” (lett. “Sole- luce”). Come già spiegato, la realtà cosmica del “Sole” ☼ , gran forno stellare nucleare dispensatore di “luce”, ottiene la sua appropriata espressione verbale tramite la riflessione: nap | pan > fény “Sole, giorno” – “luce” cioè la “luce” del “giorno” è emanazione del “Sole” – un modo di espressione semplicissimo e ingegnoso del fenomeno celeste che ammiriamo quotidianamente.
nap-fény / Sonnen-Schein / sun-shine “luce solare” (T. Amoneit)
La coincidenza con aeg. Benu e Ben-Ben (cfr. mag. benn a benn-ben “dentro all’interno”), etr. Fanu, di cui le forme allargate lat. Fanum, orf. Fanes, gr. Fenix (cfr. mag. fényes [fe:ɲɛʃ] “lucente, splendente”, forma agg. di fény ), it. Fenice ecc. è ovvia. Ampia è la sfera di vocaboli derivati dalla parola-seme arcaica BAN / fény nelle lingue europee; nel quadro del lessico greco ne fanno parte: phaínomai “essere visibile”, phainómeno “fenomeno, apparizione”, phéngo “luccicare, splendere”, phanári “laterna, faro, fanale”, phengári “luna”, phanós “lume, fiaccola”, phanerós “manifesto, ovvio”, phanérosi “rivelazione, manifestazione”, phantasía “fantasia” ecc.. Non per caso esse sono intimamente connese a vocaboli che esprimono fonicità/sonorità: phoní “voce”, phoníen “vocale”, phonázo “chiamare ad alta voce” ecc..
A proposito della relazione fény – szín, “luce” – “colore”, l’autore Hugo Kükelhaus nel suo prezioso libro Urzahl und Gebärde [“Numero Primordiale e Gesto”] (A. Metzner V. 1934 Berlin, pag. 77) esprime il seguente pensiero degno di riflessione:
«La luce in fondo è invisibile. Ciò che ne percepiamo fiorisce come colore dal suo strofinare lungo le superfici dei corpi. Sui loro angoli essa si accende a cromatica visibilità.»
Assai interessante questa riflessione sulla nascita del “colore” szín sulle superfici tramite strofinamento che per coincidenza ottiene sostegno in magyar dalla nuda parola-seme fen “strofina(re)”, svi. fenés “strofinamento”, von-ó “archetto”, affine a fény, fenn, fon, vén e van (cfr. sanscr. vānī “tessere”, vānī “suono, tono, voce, musica”, gr. phóni “voce”).
Miracolosamente, il creativo gioco di variazione fonemica con la sola nuda parola-seme arcaica BAN / pan permette in magyar la realizzazione della coesiva frase:
A fenni nap fény van espressione della verità «La alta luce solare esiste».
La stessa coesione manifestano anche le frasi ampliate:
A fenni vén nap-fény benn van «La alta stravecchia solare-luce all’interno esiste».
A finoman fent benni fény része a fenn fénylő vén nap-fénynek
«La finemente strofinata interna luce è parte della stravecchia luce solare splendente in alto».
L’altissimo grado di coerenza quasi matematica che queste frasi manifestano non è poi una rarità in magyar/(h)ungherese, ma, come abbiamo avuto occasione di constatare già in altri miei studi, è una qualità generica di questa lingua; è il fenomeno “Tema con variazioni”, che essendo una espressione di verbale unitarietà, in pratica si impone tramite autoevidenza.
Del resto l’utilizzo dell’aggettivo vén “stravecchia/o” relativo alla “luce solare” nap-fény da parte mia non è una espressione esuberante, ma è basato su un calcolo fatto da astrofisici secondo il quale il viaggio dei fotoni dall’interno del nucleo solare alla Terra dura all’incirca 100 000 anni + 1 mese + 8 minuti. La luce solare che noi ammiriamo e godiamo oggi sarà originata all’interno del nucleo solare durante l’ultima era glaciale. Con buona raggione si può dire, quindi, che “la alta luce solare” a fenni nap-fény sperimentata adesso sia “stravecchia salva-luce”, appunto, vén ép-fény / Epi-fania.
© Zoltán Ludwig Kruse
(La fonte delle immagini non specificate è: Wikipedia)