GLI ETRUSCHI E IL FANUM di Leonardo Magini
Estratto da “Gli Etruschi Come Erano”di Leonardo Magini, in stampa presso Effigi Edizioni, Arcidosso, Grosseto
4.13. Le Due Volsinii e il Fanum Voltumnae[1]
Nella seconda metà dell’‘800 il viaggiatore inglese George Dennis (1814-98), profondo conoscitore di cose etrusche, non ha dubbi e intitola il XXXV Capitolo del suo Cities and Cemeteries of Etruria: “Bolsena – Volsinii”; ma avverte: “A un occhio esperto è subito evidente che la città etrusca non occupava il sito di Bolsena (Fig. 4.32)… che sorge sul sito della Volsinii romana, non dell’etrusca. Questa va cercata su una posizione più elevata.”[2] Ancora nel 1969 l’altro grande antichista inglese Howard Hayes Scullard (1903-83) è sicuro del fatto suo e identifica la nuova Volsinii con Bolsena, spiegando: “La città che i romani ricostruirono nel 264 era indubbiamente sita a Bolsena, ai piedi e sulle estreme propaggini dei colli nell’angolo nordorientale del lago, il ‘gran Mare Volsinio’. Ma dov’era la città etrusca? Le due principali aspiranti sono state la stessa Bolsena… e Orvieto…”.
Fig 4.32 – Veduta aerea del lago di Bolsena
I dubbi, in realtà, nascono dalla natura stessa delle due località e, in minor misura, dalla distanza che le separa: Orvieto non ha mura, perché sorge su una posizione che è da sempre stata riconosciuta come dominante e forte di suo (Fig. 4.33), mentre la tradizione vuole che la Volsinii etrusca fosse dotata di “mura solidissime”; più esattamente, una delle città “più antiche, di grande potenza e con mura solidissime”, “tra le più ricche” e “le più floride” e addirittura “opulenta… veniva considerata la capitale dell’Etruria.”[3] In più – come nota ancora Scullard – “i romani non avrebbero certo fondato la nuova colonia (Bolsena; n.d.a.) in area così lontana dalla sede antica (Orvieto; n.d.a.): Falerii Novi dista da Falerii Veteres meno di cinque chilometri.”[4]
Fig. 4.33 – Orvieto, la rupe su cui sorge la città
Solo che – e qui interviene la straordinaria storia, o forse meglio leggenda, di Volsinii – una città in apparenza così fortunata, a un certo punto “cadde in un abisso di vergogne e di turpitudini, finendo per assoggettarsi allo sfrenato dominio dei suoi schiavi. In un primo momento solo pochissimi di questi osarono entrare nell’ordine senatorio, ma presto s’impadronirono del potere, ordinando di scrivere i testamenti a proprio arbitrio, vietando le riunioni e i convivi degli uomini liberi, sposando le figlie degli antichi padroni. Alla fine sancirono per legge che i loro stupri, consumati indifferentemente in danno di vedove e di mogli, restassero impuniti, e che nessuna donna vergine sposasse un uomo libero, se qualcuno di loro non ne aveva prima violato la castità.”[5]
È decisamente troppo, anche per degli etruschi debosciati – e tale macchia su di loro tornerà a riproporsi nel tempo, come del resto per i lidi di Lidia – che mandano inviati a Roma a chiedere aiuto. Roma li aiuta, ma a modo suo: nel 264 a.C. invia il console Marco Fulvio Flacco, che doma la ribellione uccidendo un bel po’ di persone, saccheggia Volsinii portando via 2.000 statue di bronzo, fonda sull’Aventino un tempio dedicato a Vertumnus o Vortumnus e vi colloca una sua statua in veste di trionfatore, mentre la statua del dio di Volsinii viene posta nel Foro, proprio là dove inizia il Vicus Tuscus che conduce al Circo Massimo. Infine Roma sposta i superstiti in un nuovo centro. E si è punto e a capo: se la prima Volsinii – l’etrusca – corrisponde a Bolsena, dove si trova la nuova – la “romana”? viceversa, se la Volsinii romana corrisponde a Bolsena, dove si trova la vecchia, l’etrusca?
Fig. 4.34 – Le mura di Bolsena, in località Poggio Moscini, al di sopra dell’attuale centro abitato
La risposta a questa domanda non è semplice, e in realtà non è stata ancora data. Si sono però moltiplicate le ipotesi: mentre fino a non molti anni fa sembrava pacifico che lo “spostamento” dei superstiti fosse un semplice e diretto passaggio da una posizione più elevata e difendibile a una più bassa e scoperta – un po’ come avvenne a Roma con i compagni di Celio Vibenna, dal colle Celio al Vico Tusco appena ricordato – e insomma che la nuova Volsinii corrispondesse all’attuale Bolsena e la vecchia, come già aveva indicato il Dennis, dovesse sorgere su un colle adiacente, in tempi più recenti si è cambiato parere. Da una parte, gli scavi condotti per anni dall’etruscologo e archeologo francese Raymond Bloch a Poggio Moscini sopra Bolsena, che pure hanno messo in luce diversi resti di un abitato e tratti consistenti di mura lunghe circa 6 chilometri (Fig. 4.34), non hanno individuato un centro importante come avrebbe dovuto essere il, o uno dei, caput Etruriae; dall’altra parte, nel 1963 proprio a Orvieto, lungo l’antica Via della Cava, fu rinvenuto un tratto di mura assai poco imponente[6] – otto strati di massi di 40-50 cm ciascuno, quando le Mura cosiddette Serviane di Roma ne hanno fino a tredici-quindici – senza peraltro che fosse possibile individuare né il sito della porta né la porzione di mura che avrebbe dovuto proseguire più oltre.
Dimenticando che per secoli si è esaltata la fortissima posizione naturale dello sprone tufaceo isolato su cui si erge la città, che quindi non avrebbe avuto alcun bisogno di ulteriori difese, il modesto tratto di mura è bastato per dire che queste sono le “mura solidissime” di cui parla la tradizione, per assegnare a Orvieto il sito della antica Velsna etrusca e per iniziare a cercare nei pressi il Fanum Voltumnae. Questo – sempre secondo la tradizione – è il luogo davvero speciale in cui, per secoli anzi per oltre un millennio, si ripete annualmente il Concilium Etruriae, il “Concilio d’Etruria”, la riunione dei dodici capi, dei “lucumoni” della dodecapoli etrusca, e dove, anche dopo la distruzione della cosiddetta Volsinii Veteres e il trasferimento nella Volsinii novae, si prendono le decisioni più importanti relative all’intera comunità. Dando così per scontata una cosa che proprio scontata non è, e di cui comunque la tradizione non parla: che gli etruschi abbiano conservato nel luogo originario – ovvero Orvieto – la sede della loro divinità più importante[7] e del Concilium Etruriae mentre, assieme ai superstiti della città, avrebbero trasferito nella nuova Volsinii – ovvero Bolsena – il culto dell’altra divinità legata a Voltumna, cioè la dea Northia, di cui si dirà tra poco.
4.14. La Ricerca Archeologica e le Pressioni Esterne
Il mutamento di opinione non è dovuto a qualche nuova, eccezionale scoperta – quella del tratto di mura non è tale di per sé, diventa tale se la si vuole esaltare e sfruttare – ma a un cambio di “gestione” degli studi: gestione, sì, perché gli studi sono e continuano a essere orientati dall’alto. Per dire, proprio nel caso di Volsinii e del Fanum Voltumnae, già all’epoca del I Congresso Internazionale Etrusco del 1928 venne emesso un ordine del giorno che prescriveva: “Il Podestà di Orvieto, conosciuto il desiderio del Governo… che si compiano solo esplorazioni atte ad affrettare la risoluzione dell’incognita etrusca, prega la Presidenza del Congresso… che in conseguenza dell’ipotesi, già avanzata, che fissa in Orvieto il Fanum Voltumnae, possano essere compiute le necessarie ricerche archeologiche… nel sottosuolo della rupe e del colle orvietano.”[8] Nonostante la fretta imposta dall’alto, però, ancora cinquanta anni dopo, nel 1981 uno dei collaboratori di Bloch ammette solo che “un insieme di indizi rendono probabile l’ubicazione della Volsinii etrusca sulla rocca di Orvieto.”[9]
Dunque, l’ipotesi resta un’ipotesi, l’incognita un’incognita, e si è ancora agli indizi e alle probabilità. Successivamente, e in pochi anni, dagli indizi si passa alle prove – anche in mancanza di esse – e dalle probabilità alle certezze e l’orientamento degli archeologi muta definitivamente, con il risultato che oggi, nel 2020, il catalogo di una importante mostra intitola direttamente un Capitolo: “Orvieto, Etruriae caput”, e lo apre con la testimonianza di Procopio di Cesarea (490-560 d.C.): “Gli antichi hanno edificato la città sulla sommità della collina, senza cingerla di mura o fornirla di altro genere di difesa…”.[10]
Qualcosa non torna: a Orvieto si cerca una Volsinii “dotata di mura solidissime” e la si identifica con una città “senza mura o altro genere di difesa”. Qualcosa non torna: a Bolsena si riscontra la presenza di “una serie di insediamenti minori, tutti collocati su alture naturalmente difese e tutti attivi tra l’epoca arcaica e la conquista romana, disposti a distanza più o meno regolari sia tra loro sia rispetto alle sponde lacustri (Fig. 4.35)”, e li si identifica
Fig. 4.35 – I principali stanziamenti etruschi attorno al lago di Bolsena con i “castella che furono attaccati e in parte distrutti (ne receptaculo hostibus essent) da Publio Decio Mure nel corso della campagna del 308 a.C. contro Velsena, condotta soprattutto allo scopo di fare terra bruciata attorno alla capitale.”[11] Peccato che nel 308 a.C. la “capitale” sia ancora la Volsinii etrusca, distrutta e sostituita dalla Volsinii romana soltanto nel 264 a.C. Se la Volsinii etrusca fosse davvero a Orvieto, sarebbe lì attorno che andrebbero cercati e magari trovati i castella distrutti nel 308 a.C.; invece li si trova attorno alla Volsinii romana, a Bolsena. Ma allora è questa, o è qui vicino, la prima Volsinii degli etruschi?
Fig. 4.36 – Gli scavi in Campo della Fiera, nella piana sotto Orvieto
Il dibattito – che ormai non è più tale, perché è stato chiuso d’autorità – è ulteriormente complicato dal fatto che “presso Volsinii” esisteva il grande centro religioso del Fanum Voltumnae, dove si riuniva il “Concilio d’Etruria”. Questo fa sì che lo pseudo-dibattito attuale sia del tutto impropriamente associato a una sempre più incombente questione economica: perché il giorno che si potesse sostenere che si è individuato l’autentico Fanum Voltumnae, è chiaro che questo costituirebbe un richiamo turistico di prima grandezza, con i conseguenti riflessi di volgare business, di vile denaro. E in una competizione del genere, con i suoi 4.000 abitanti la appartata Bolsena è destinata a perdere il confronto con i 20.000 abitanti più Autostrada del Sole e alta velocità ferroviaria della centralissima Orvieto.
Nei fatti qui, da una ventina di anni, gli archeologi scavano nella piana a Est dell’abitato, tra il traffico automobilistico e il ferroviario, in località Campo della Fiera (Fig.4.36), quasi sul greto del fiume Paglia. Le ricerche “hanno consentito di riportare alla luce uno straordinario complesso di strutture che, estendendosi per oltre cinque ettari, testimonia l’esistenza di una grande area sacra frequentata per più di 2000 anni, dal VI sec. a.C. al XV secolo”.[12] Non vi è bisogno di dire che il complesso è stato immediatamente identificato con quel Fanum Voltumnae di cui si andava affannosamente in cerca per ordine delle superiori autorità, senza però che vi sia ancora la prova provata, la pistola fumante, di una tale attribuzione.[13] Pistola fumante che, nel caso in questione, dovrebbe essere data da un’iscrizione di dedica, dal momento che non si ha la minima idea di come gli etruschi rappresentassero questa divinità – a volte maschile, a volte femminile – autentica specialista del trasformismo più sfrenato e indomabile.
4.15. Le Due Divinità di Volsinii: Voltumna e Northia
Nel frattempo si sono perse di vista diverse questioni:
– prima, che accanto a Voltumna e come lei legata a Volsinii – alla Volsinii etrusca – vi è un’altra divinità femminile, in latino Northia o Nortia, associata anche alla dea della sorte, alla Fortuna[14] etrusco-romana, divina protettrice del re Servio Tullio; e nel tempio di Northia, ogni anno, proprio in occasione del Concilium Etruriae, si conficcava un chiodo sulla parete, a fermare il tempo passato e a dare il via a quello futuro;
– seconda, che anche se i cittadini di Volsinii vennero insediati in una nuova e distante città, il fanum Voltumnae, e con lui il tempio di Northia, rimase certamente dove era – un luogo sacro non si sposta tanto facilmente – e se lo si ricerca apud Orvieto è solo perché si è deciso di identificarla con la prima Volsinii;
– terza, che quello di Voltumna non è un templum, ma un fanum.
La differenza è sostanziale. Il “tempio” è un microcosmo che rappresenta qui sulla terra il macrocosmo dei cieli: vi risiedono uno o più divinità, che vengono venerate con libagioni e offerte sacrificali in cambio delle quali si implora il favore di qualche grazia. Il “fano” – lo dice il termine latino fanum legato alla forma verbale for, fari, “parlare, profetizzare” – è un luogo dove l’uomo si rapporta con qualche entità superiore, la interroga e ne ascolta le risposte, più o meno chiare, più o meno nebulose; è quello che fanno i dodici lucumoni etruschi – i capi della “dodecapoli” – che ogni anno vi si recano per il Concilium, il “raduno”, l’“assemblea”.
Che al fanum vi sia un dialogo tra la divinità e la comunità dei fedeli – cioè qualcosa che riporta alla leggenda di Tages che parla e detta e dei tanti seguaci accorsi da tutta Etruria che lo ascoltano e ne registrano gli insegnamenti – è indirettamente confermato anche dalla straordinaria Elegia in cui il poeta Properzio non parla di, ma dà direttamente la parola alla divinità: “Perché ti meravigli delle mie tante forme in un solo corpo? / Impara i caratteri aviti del dio Vertumno. / Io sono etrusco, nato in Etruria, e non mi pento / di aver lasciato la natia Volsinio in tempo di guerra.”[15]
Quanto a Northia, dal momento che è associata a Fortuna, è certamente una divinità delle “sorti” e della divinazione. Ora, nel mondo antico, come insegnano i casi di Delfi e della Sibilla locale (Fig. 4.37) e quello della Sibilla Cumana prossima al lago di Averno e ai Campi Flegrei, la divinazione è costantemente legata alle esalazioni vulcaniche del terreno. E queste esalazioni non sono mai state riscontrate nell’area del Campo della Fiera, sulla riva del Paglia che di lì a poco si getterà nel Tevere, mentre sono ancora oggi attive e riscontrabili lungo i bordi del gigantesco cratere vulcanico che ospita il lago di Bolsena, pochi chilometri a Nord della moderna cittadina.
Proprio qui, a monte Landro (Figg. 4.38 e 4.39), una dozzina di anni fa gli scavi hanno messo in luce un massiccio recinto che circonda l’altura e, all’interno, la base di un tempio arcaico dalle perfette proporzioni etrusche: in più vi è stata rinvenuta una vasca con un piccolo foro che si perde nelle insondate profondità del terreno sottostante. Un terreno che presenta dei singolari caratteri vulcanici, se i contadini del luogo ricordano che lì la neve non riesce a depositarsi, ma si scioglie subito, senza trasformarsi in ghiaccio.[16]
Fig. 4.38 – Monte Landro, 5 km a Nordovest di Bolsena
Fig. 4.39 – Il lago di Bolsena visto da monte Landro
Su Voltumna, poi, esistono due importanti testimonianze: oltre all’Elegia di Properzio, le Metamorfosi di Ovidio dedicano un passo alla divinità di Volsinii e ai suoi amori con Pomona (Fig. 4.40).[17] Perché Voltumna è allo stesso tempo un dio maschio – Vertumnus – e una dea femmina – Voltumna. Veramente, tanto Properzio quanto Ovidio lo immaginano un maschio, ma solo perché fanno riferimento alla statua di Vertumnus, che i romani hanno collocata sul Foro Romano. Properzio però si affretta a far dire al dio: “La mia natura si adatta a tutte le figure / e starò bene in quella in cui vorrai mutarmi. / Se mi fai mettere una veste di Cos, sarò una morbida fanciulla; / se indosso la toga, chi negherà che io sia un uomo?”
I due poeti cercano di spiegarsi meglio, e non è facile, perché la creatura divina è indescrivibile, è sempre mutevole, è in perenne trasformazione, come la natura che crea la vita: dal seme nasce la pianta, dalla pianta il fiore, dal fiore il frutto, dal frutto il seme. Ognuno di questi stati – alcuni maschili, altri femminili – nasce dal precedente e dà vita al successivo;
Fig. 4.40 – Francesco Melzi (1491-1570) Vertumno e Pomona Gemäldegalerie, Berlinoma
ognuno di questi stati è “ciò che è diventato”. Tale dovrebbe essere il senso del nome Voltumna/Vertumnus, participio passato della forma verbale volt-/vert-, “volgere, girare, rivoltare, cambiare, mutare.” Così, mutando e rimutando, il cerchio si chiude, ma la vita continua e si rinnova di continuo, cambiando sempre ma sempre viva in ogni cambiamento. È un’immagine sfavillante questa di Voltumna – che nello stadio del frutto diventa Vertumnus e si innamora di Pomona, la dea dei “pomi”, dei “frutti”. Non per niente la festa del dio cade il 13 agosto,[18] quando sta per terminare la stagione dei pomi, dei frutti.
Fig. 4.41 – Veduta interiore del Tempio della Dea Nortia, da Antonio Adami Storia di Volseno, Roma 1737
Fig. 4.42 – Ascia-martello spezzata ritualmente, da Bolsena (da Morpurgo 1927)
Fig. 4.43 – Specchio con Atrpa – la greca Atropos, “non evitabile” – con martello e chiodo IV sec. a.C, provenienza sconosciuta, Altes Museum Berlino
Quel poco che si sa di Voltumna diventa quasi nulla nel caso dell’altra divinità, solo femminile, venerata di certo a Bolsena – alla Bolsena moderna, e dunque alla Velsna romana, non all’etrusca, per chi è impegnato a scavare a Orvieto! – come mostrano non solo il tempio a lei dedicato (Fig. 4.41), ma le asce-martello ritualmente spezzate rinvenute non a Orvieto, ma appunto a Bolsena (Fig. 4.42). Allora è inevitabile chiedersi: chi ha spostato il tempio di Northia? di quella dea che una volta l’anno infigge un chiodo in una parete del tempio a lei dedicato, e poi spezza ritualmente l’ascia-martello che ha appena utilizzato?
Quando l’usanza viene introdotta a Roma, il clavus annalis è infisso nel tempio di Giove Capitolino il 13 settembre, anniversario della fondazione, un mese dopo la festa di Voltumna, mentre la stessa dea, vista come dea del destino, è identificata con la greca Atropos (Fig. 4.43), la maggiore delle tre Parche, la più severa, quella che ha il compito di recidere, per ciascun mortale, il filo della vita. D’altra parte, il nome greco Atropos è un nome parlante: “Colei che non si può evitare, l’inesorabile”; insomma, la morte.
Ecco che le caratteristiche delle due divinità di Volsinii si compongono e, nel comporsi, si dividono i compiti: Voltumna rappresenta la vita, con i suoi diversi passaggi dai tempi e caratteri definiti e diversi, ma sempre attivi; Northia rappresenta la morte, con quel chiodo fissato nella parete del tempio che, da un lato, conta il passare del tempo ma, dall’altro, richiama il chiodo che chiude inesorabilmente la bara.
Fig. 4.44 – Il dio pianta il chiodo di fondazione che proteggerà l’edificio in costruzione, ca. 2.130 a.C., da Tello, Mesopotamia, oggi al British Museum, Londra (Foto di Osama Shukir Amin)
L’usanza del chiodo fissato nel muro ha certo una lunga storia, se la si ritrova già nella Mesopotamia del III millennio (Fig. 4.44); ma lì ha un compito apotropaico, ben augurale: quello che viene fissato è qualcosa che si sta erigendo e che deve essere eretto per l’eternità; il chiodo si rende garante del risultato. In Etruria e a Roma il senso del chiodo di Northia è rimasto lo stesso, ma è anche mutato: è rimasto lo stesso perché, con la sua presenza, garantisce l’immutabilità del passato; è mutato perché non guarda più in avanti, ma all’indietro. In avanti guarda però Voltumna, che con i suoi inarrestabili mutamenti, con le sue infinite metamorfosi, non è meno inesorabile di Northia/Atropos, ma in compenso assicura la più totale adattabilità alle diverse circostanze della vita.
Non si può chiudere il discorso su Northia senza ricordare la sua più stretta parente – forse l’unica – nel pantheon indoeuropeo. Si tratta di Nirṛti, la dea indù della “dissoluzione” e del “decadimento”. Nirṛti è venerata nei luoghi più desolati che le appartengono di diritto; è la figlia di Adharma e di Himsa, “Ingiustizia” e “Offesa”; è la madre di Mṛtyu, Bhaya e Mahabhaya, “Morte”, “Paura” e “Terrore”; è l’opposto di Lakṣmī, la Fortuna indiana che come l’etrusco-romana può essere punya o papi, cioè bona o mala, “Buona” o “Cattiva”.
Se punya vale “quello che non è decomposto” – come vuole la Bhagavad Gita 7.9 – allora il suo opposto Nirṛti è il “decomposto”, il “dissolto”, e si comprende perché Northia abbia bisogno di martello e di chiodo: sono gli strumenti con cui si blocca il passato, lo si “inchioda”.
[1] Dedico in particolare questo paragrafo all’amico Giovanni Feo (1949-2019), attento conoscitore del territorio, e scopritore dell’osservatorio astronomico arcaico di Poggio Rota, che tanto appassionatamente ha studiato e scritto sul tema.
[2] Dennis 1883, Vol. II, pp. 18-23.
[3] Rispettivamente Zonara 8.7: ; Plinio Storia naturale 2.139: oppidum Tuscorum opulentissimum; Orosio 4.5: Vulsinienses, Etruscorum florentissimi; Valerio Massimo 9.2: opulenta, moribus et legibus ordinata, Etruriae caput habebatur.
[4] Scullard 1969, p. 131.
[5] Valerio Massimo 9.2.
[6] Tanto poco imponente questo tratto di mura che, su Internet, è impossibile trovarne documentazione fotografica.
[7] Varrone La lingua latina 5.46: Ab eis dictus Vicus Tuscus, et ideo ibi Vortumnum stare, quod is deus Etruriae princeps.
[8] Della Fina 2013, pp. 55-6.
[9] M. Gros Bolsena – Guida agli scavi, MEFRA 1981, p. 20.
[10] Procopio La Guerra Gotica, 2.20.7.12.
[11] Tamburini 2013, pp. 149-50. La testimonianza di Livio in ab Urbe condita 9.41.6.
[12] Dal sito http://www.campodellafiera.it/. Campo della Fiera Onlus è convenzionata con: Università degli Studi di Foggia, Università degli Studi di Firenze, Università degli Studi di Bologna, Università della Calabria, Università Cattolica del Sacro Cuore.
[13] La mancanza di una pistola fumante mantiene aperto il dibattito, tanto aperto che ultimamente Tuscania e Montefiascone si sono aggiunte come possibili sedi del Fanum Voltumnae.
[14] Giovenale Satire 10: “Al solito, gira con la fortuna e disprezza chi cade. Se Nortia avesse sostenuto il suo toscano.”; Marziano Capella Le nozze di Filologia e Mercurio 1.88: “Alcuni la definiscono Sorte, altri Nemesi, la maggioranza Tyche o Nortia.”
[15] Properzio Elegie 4.2.
[16] Su Monte Landro, vedi Timperi 2010 e Feo 2014, oltre alle relazioni di chi porta avanti gli scavi.
[17] Ovidio Metamorfosi 14.622-771.
[18] Il 13 agosto cade 164 giorni dopo il primo di marzo, primo giorno dell’anno; in quel giorno la luna completa il sesto mese siderale, ovvero torna per la sesta volta alla posizione rispetto alle stelle fisse che aveva il primo di marzo. Il mese siderale dura 27,33 giorni; nel calendario numano tra primo di marzo e 13 di agosto passano 164 giorni: 31 di marzo + 29 di aprile + 31 di maggio + 29 di giugno + 31 di luglio + 13 di agosto = 164. E 164 giorni divisi per i 27,33 giorni del mese siderale danno 6 mesi siderali. Che dopo 82 giorni – e multipli – la luna torni alla medesima posizione rispetto alle stelle fisse è noto anche ai maya.