RINALDONE CENTRO NUCLEARE
Rinaldoniani nella media valle del Fiora
La media valle del Fiora, come altre parti d’Italia, fu abitata da comunità umane di cacciatori e raccoglitori, finché fu raggiunta da un popolo organizzato in comunità umane collegate fra loro che avevano le stesse conoscenze, analoga organizzazione sociale, lo stesso modo di curare i defunti. Le salme venivano inumate in tombe del tipo a “grotticella” o a “forno”, con apertura sulla parete al fondo del vestibolo, chiusa da una lastra di pietra o di legno. Fu la prima volta che in Italia le tombe venivano raccolte in necropoli, verosimilmente fuori dal villaggio,
Nel secolo scorso, dopo la scoperta dell’archeologo Pernier della prima necropoli in Località Rinaldone, presso Montefiascone (Vt), ne sono seguite altre, grazie all’intensa attività di ricerca degli archeologi Ferrante Rittatore Vonwiller e, successivamente, della professoressa Nuccia Negroni Catacchio che ha dedicato gran parte della sua attività professionale alle ricerche sulle culture della preistoria. I ritrovamenti delimitano il territorio occupato dai Rinaldoniani: a nord, la riva sinistra dell’Arno, a sud, oltre il Tevere fino a contatto con la cultura del Gaudo, in Campania, all’interno, oltre la linea del lago di Bolsena. Un nucleo dei Rinaldoniani tirrenici sembra che avesse oltrepassato l’Appennino per insediarsi nell’area prossima ai centri moderni di Recanati, Camerano e Loreto. Poiché sembra che il gruppo marchigiano appartenesse alla cultura tirrenica, ci si domanda quale fosse il motivo del trasferimento: forse la ricerca di nuovi territori da colonizzare o dei metalli.
L’archeologia, allo stato attuale delle ricerche, ha individuato due “aree nucleari” della cultura di Rinaldone: la prima nella media valle del Fiora presso ponte San Pietro, località in provincia di Viterbo, l’altra formata dal gruppo a sud del Tevere. L’“area nucleare,” secondo la definizione dell’archeologia, è il territorio occupato dal primo gruppo che vi si è insediato. Dicono gli archeologi che intorno al nucleo dei Rinaldoniani “… si organizzano, quasi a cerchio, altri gruppi molto meno compatti sul territorio e collocati in zone che sembrerebbero di “confine”, nell’accezione più neutra di questo termine.”(Negroni)
I Rinaldoniani furono sicuramente un popolo dotato di conoscenze superiori a quelle possedute da qualsiasi altro che viveva nella penisola: occupavano un territorio delimitato, inumavano i morti in tombe organizzate in vere necropoli e accompagnavano la deposizione con un rituale; lo testimoniano il tipico vaso a forma di fiasco sempre ritrovato presso l’apertura della cella e, all’interno di questa, una coppa con lembi aperti per cibi e bevande, oggetti vari di vita pratica. Tutti elementi sufficienti a indicare che i Rinaldoniani avevano un credo religioso.
Nell’area occupata dal nucleo di Ponte San Pietro, non sono state trovate tracce di villaggi rinaldoniani, forse perché sono mancate appropriate indagini; sono venuti così a mancare ulteriori elementi di conoscenza dell’organizzazione sociale e del sistema di vita di quel popolo.
Quella dei Rinaldoniani si può definire “civiltà”? L’archeologa Nuccia Negroni Catacchio scrive che il termine “civiltà, per definire gli insiemi degli aspetti di una comunità antica è carico di troppi significati storici, filosofici, antropologici, e anche politici perché possa essere usato senza un’ulteriore, ennesima specificazione. In questa sede il termine è riferito a una comunità ormai strutturata, il cui territorio è chiaramente individuabile, anche se le aree di confine sono ancora relativamente labili e i cui caratteri sono facilmente riconoscibili e interdipendenti, come gli elementi di un sistema”. In conclusione quella dei Rinaldoniani se non può essere definita “civiltà” fu sicuramente una “cultura” avanzata. Una cultura che fu presente su un territorio ben delimitato per così lungo tempo e che, oltre alle necropoli, ha lasciato interessanti monumenti e tante altre tracce minori di cui si dirà, non può non avere influenzato i residenti dei quali fu a contatto per millenni. Dopo oltre un millennio e mezzo di permanenza in Italia, dagli inizi del IV alla fine del III millennio, la cultura di Rinaldone scomparve o, sarebbe forse meglio dire, decadde.
I Rinaldoniani conoscevano e praticavano la metallurgia del rame, un metallo difficile da lavorare del quale fecero un uso marginale: non ne ricavarono armi, che continuarono ad essere costruite in pietra o in osso o legno, ma oggetti di ornamento, come pugnali e asce rituali. Il rame era difficilmente manipolabile e manca della necessaria durezza che richiedono le armi. Nel campo della metallurgia non fecero progressi, non conobbero il bronzo, forse perché avevano perduto il contatto con la patria di origine che, nel frattempo, aveva scoperto il nuovo metallo e i segreti della sua lavorazione. Il popolo o la cultura sopraggiunta, i Campaniformi?, che conosceva la metallurgia del bronzo, metallo più idoneo alla costruzione di armi e altri oggetti, si insediò sulla riva destra dell’Arno, a contatto con i Rinaldoniani, circa nel 2100 a.C., nella tarda età del rame.
Per qualche secolo i due popoli convissero divisi dal fiume. Lentamente i campaniformi si insinuarono nel territorio dei Rinaldoniani. Le due culture rimasero a lungo a diretto contatto finché, all’inizio del II millennio a.C., la cultura di Rinaldone scomparve, sembra in breve tempo. Così si è anche ipotizzato che l’intero popolo fosse tornato alla patria di origine. E’ ipotesi non credibile, un popolo che per quasi duemila anni ha vissuto nel territorio da lui colonizzato, senza rivali per ben oltre un millennio, non può essersi trasferito altrove in massa. Sicuramente, qualche evento importante fu la causa della sua scomparsa, come cultura dominante. L’ipotesi più verosimile è che i Campaniformi, cultura dominante perché armata, abbiano sottomesso e assorbito i Rinaldoniani e che, dall’unione, sia nata una nuova cultura, quella degli Umbri che la stessa storiografia romana definiva il popolo più antico d’Italia, insieme ai Liguri. La presenza degli Umbri sui territori prima occupati dai Rinaldoniani è attestata dai nomi che ne richiamano il popolo occupante, come il fiume Ombrone. Più tardi i Pelasgi avrebbero vinto gli Umbri spingendoli verso l’interno della penisola.
Oltre le necropoli, molti altri monumenti sono stati lasciati dalla cultura di Rinaldone. Le tombe a grotticella isolate sono state trovate in vari punti del territorio della media valle del Fiora: a Poggio Buco, in località Porcareccia, a Corano, a Poggio Formica (Pitigliano Gr) e chissà quante ne sono state distrutte dalle lavorazioni agricole, soprattutto da quelle profonde eseguite dopo l’avvento delle ruspe e delle trattrici moderne; erano state scavate nel tufo, spesso nei declivi ai margini del pianoro, comunque molto in superficie. Se ne trae la convinzione che i Rinaldoniani praticassero la pastorizia e l’agricoltura sul territorio. Il ritrovamento, negli scavi di San Lorenzo a Greve, di un fossato artificiale che serviva all’irrigazione e al drenaggio delle acque, confluente in un canale che portava al fiume Greve, proverebbe che quel popolo aveva conoscenze nel campo dell’idraulica applicata all’agricoltura. Sull’isola d’Elba sono stati rinvenuti molti scheletri umani all’interno di una grotta; in questo caso le inumazioni non furono fatte in grotticelle ma in un unico luogo furono deposte più salme, in modo non ordinato. Si trattò forse di cercatori che operavano sull’isola per estrarre metalli, da esportare verso altri paesi?
Tornando alla media valle del Fiora, in diverse località dove la platea di tufo è scoperta o ricoperta da un leggero strato di terra, caratteristica frequente in quest’area, mano umana scavò piccole coppelle con canale per la fuoriuscita del liquido, simili a una tazza per la mescita di bevande. Se ne trovano un po’ dappertutto nel territorio; in località Pian dei Conati a Pitigliano (GR) e Poggio dell’Uovo a Sorano (GR) se ne trovano molte scavate sul pianoro tufaceo, spesso riunite in gruppo di due o tre.
E’ probabile che le coppelle servissero per un qualche rito che aveva relazione con l’acqua. Tante altre piccole cavità furono scavate sulla pareti di roccia, secondo disposizioni che qualcuno interpreta come la rappresentazione di costellazioni visibili in cielo. In una roccia della via cava di San Giuseppe (Pitigliano GR), l’ipotesi è che riproduca la costellazione del drago.
Non sono queste le uniche tracce, chiaramente arcaiche, il cui vero significato sfugge allo studioso.
I Rinaldoniani, è ormai accertato, avevano conoscenze di astronomia che utilizzarono per fini pratici e religiosi. Osservavano l’orizzonte verso l’alba e il tramonto del sole, della luna e di altre stelle e pianeti. A questo fine costruirono osservatori astronomici, modellando massi di tufo trasformati in mirini, i cannocchiali moderni, orientati in direzione degli orizzonti dell’alba e del tramonto. Sono gli osservatori scoperti nelle località Poggio Rota, Le Sparne e Insuglietti della media valle del Fiora, in comune di Pitigliano.
Poggio Rota (Pitigliano GR): Il sole, visto dal solium (pietra n. 11), al solstizio d’estate tramonta sulla linea della punta del monolite n. 3 che serviva di riscontro per il tramonto del Sole al solstizio d’estate.
L’osservatorio di Poggio Rota, un cerchio di grandi megaliti, modellati secondo precisi criteri, fu costruito per osservare il tramonto degli astri all’orizzonte; fra i massi che lo compongono, uno ha la forma di piccola vasca per contenere un liquido; veniva utilizzato per riti religiosi?
Poggio Rota (Pitigliano GR) : il sole si riflette nel liquido contenuto nella vasca che fa parte del monoliti del gruppo a nord del sito.
In località la Sparne, su un costone di tufo, al di sotto del quale a poca distanza scorre il Fiora, su un masso, rozzamente modellato, fu tracciato un mirino equinoziale e, su una parete, fu scavata una nicchia con rilievi modellati sul fondo, sicuramente con funzioni astronomiche.
Insuglietti (il nome sembra richiamare l’acqua) si scopre proseguendo il pianoro dopo Le Sparne, nella direzione del corso del Fiora. Dall’alto del pianoro si scende verso una valle, di non grandi dimensioni, disseminata di massi di tufo, qualcuno, a prima vista, chiaramente modellato dall’uomo. Non vi è dubbio che si tratta di un sito preistorico.
Insuglietti (Pitigliano GR): mirino con fenditura orientata verso il sorgere del sole sulla linea della collina di fronte.
La presenza nel sito di una grande tomba a dado, con dromos orientato nord-sud, di costruzione etrusca del VII o forse fine VIII secolo a.C., ne dimostra la sacralità, probabilmente decretata dai Rinaldoniani e sicuramente riconosciuta tale dagli Etruschi che vi costruirono la tomba nella forma a dado (la forma più antica delle tombe etrusche) di grandi dimensioni; un vero e proprio monumento.
La tomba è inserita in un più antico contesto monumentale in cui dominano un grande cerchio di Pietre, di dimensioni megalitiche, un masso di tufo abbozzato a forma di cubo, sicuramente un puntatore, altri puntatori analoghi sparsi nella valletta e, infine, una grande e profonda cavità a forma cilindrica. Tutti manufatti che presentano evidenti, anche se grossolane, lavorazioni dell’uomo. Il puntatore è simile, e sembra avere svolto le stesse funzioni, di osservazione dei profili dell’orizzonte in un punto in cui sorge o tramonta il sole o altra stella o la luna.
La scanalatura del puntatore di fronte è allineata con il canale che divide il cerchio di pietre sul retro in alto della foto.
Il puntatore di Insuglietti è orientato verso est, nel punto in cui sorge il sole al solstizio d’estate, è posto al termine del canale centrale di divisione del cerchio di pietre e una immaginaria linea retta unisce il canale del circolo di pietre, la fenditura del mirino e il punto della collina di fronte in cui appare il sole al solstizio estivo.
I monumenti descritti, ricavati dall’uomo modellando il tufo, appartengono alla classe dei megaliti. Il megalitismo fu un fenomeno umano che si sviluppò in tutta Europa e oltre l’Europa, nel tempo della presenza in Italia dei Rinaldoniani che furono grandi intagliatori di pietra e anche costruttori se, come sembra, a loro viene attribuita la costruzione delle quattro “Aiole” del lago di Bolsena. Le “Aiole” sono grandi cumuli di pietre assestate che attualmente sono immerse nelle acque del lago, a causa di un fenomeno di bradisismo verificatosi in età antica. In realtà furono costruite sulla riva del lago in quattro distinti punti. In base a quale criterio e perché furono scelti quei quattro punti della riva?
Morranaccio (Pitigliano GR): il cunicolo ricavato nella parete di un tumolo di tufo che si trova sulla riva sinistra del fiume Nova; probabile monumento.
Le “tagliate” nel tufo che sono numerose nel territorio della media valle del Fiora, conosciute come “vie cave” etrusche, sono opere megalitiche; si tratta di tagli del masso tufaceo che, in molti tratti, sono profondi fino a 20 ml e in alcuni la larghezza consente appena il passaggio di un uomo. La tradizione attribuisce la costruzione delle vie cave agli Etruschi; la scoperta che la zona fu abitata da i più antichi Rinaldoniani e, più tardi, dai Pelasgi, popoli entrambi grandi costruttori, apre l’ipotesi che questi ne possano essere stati i costruttori, prima degli Etruschi.
Anche se non si ha la certezza che i costruttori delle vie cave siano stati gli Etruschi, è certo che furono loro ad utilizzarle come percorsi sacri; molte delle vie infatti portano a necropoli etrusche e sulle pareti sono visibili parole e segni di chiara appartenenza a questa civiltà.
Non è corretto definire “vie“ di transito tutte le tagliate, forse alcune potranno essere state scavate in tempi più recenti come strade, ma quelle che hanno, lungo il loro percorso o a margine dello stesso, necropoli e tombe etrusche non sono da considerare solo strade ma anche vie sacre. Altre tagliate hanno le pareti alte e così ravvicinate da consentire appena il passaggio di una, non assolvono sicuramente la funzione di strade.
Anche sulle cosiddette vie cave etrusche il problema delle origini e della funzione è tutt’ora aperto.
1 – Da “Atti del VII Incontro di Studi” a cura di Nuccia Negroni Catacchio dell’Università degli Studi di Milano